giovedì 16 agosto 2012

C'è chi ancora nega l'esistenza del femminicidio


Facebook è solo un social-network, si sa, e il peso delle opinioni espresse attraverso il canale telematico viene comunemente considerato come relativo.
Ma si può davvero parlare di relatività quando ci si riferisce ad opinioni espresse in merito del femminicidio? Si può davvero dare poco peso alle parole di persone che definiscono il femminicidio come un’operazione mediatica?



L’episodio in questione risale a qualche tempo fa. Ma non è l’unico.
Chi frequenta l’ambiente dei social-network, nel tentativo di diffondere una cultura di genere, lo sa bene. Si legge di tutto. E i maschilisti che sbandierano il proprio orgoglio virile e misogino sono solo una parte di quello che fa rabbrividire. Capita, per esempio, che ci si imbrigli in conversazioni ai limiti del paranormale con donne che si definiscono femministe “intelligenti” o "serie" differenziandosi dalle “nazifemministe” [nazifemminismo: ossimoro, categoria concettuale utilizzata per calunniare i movimenti femministi, poiché nessun movimento femminista – nel corso della storia – è mai stato nazista o a favore dell’oppressione degli esseri umani].

Riprendo questo episodio per rispondere una volta per tutte alle persone – ahimè, numerose – che si ostinano a negare l’esistenza di un fenomeno che da sempre esiste, che da sempre rappresenta una piaga sociale trasversale alle culture, ai luoghi, ai contesti e alle epoche, un fenomeno che ancora oggi continua ad essere misconosciuto. E, Le Arrabbiate lo dicono sempre, “ciò che non si nomina non esiste”. Parlare di femminicidio significa dare legittimità ad una realtà che esiste. Ostinarsi a parlare di violenza, come se la variabile “sesso - genere femminile” non abbia alcuna rilevanza, significa rendersi complici di una cultura e di una impostazione societaria che chiude un occhio (se non tutti e due) di fronte alle sempre più numerose morti e violenze ai danni delle donne. A chi mai verrebbe in mente di dire che non esiste la pedofilia, che questo concetto è un prodotto mediatico perché la violenza riguarda tutti? A nessuno, temo. Le eccezioni si sollevano solo quando si tratta di donne (e, se vogliamo dirla tutta, quando si tratta di tutte le categorie che minano l’eteronormatività e il patriarcato: donne, persone omosessuali e bisessuali, persone transgender, intersessuali, crossdresser, queer).

Rispondiamo a chi misconosce e rinnega l’esistenza del femminicidio, diffondendo un documento redatto dall’avvocata Barbara Spinelli, che riporta quanto emerso nel corso della 20° Sessione del Consiglio dei Diritti Umani, presso la sede delle Nazioni Unite di Ginevra, in data 25 giugno 2012: Rashida Manjoo - Special Rapporteur delle Nazioni Unite per il contrasto della violenza sulle donne – ha presentato, per la prima volta, il Rapporto Tematico Annuale sugli Omicidi Basati sul Genere, ed il Rapporto sulla Violenza, sulla scorta delle sua missione in Italia lo scorso gennaio.

Rispondiamo a chi, chiudendo gli occhi, nega l'esistenza del femminicidio in quanto piaga sociale, con le parole usate dalla Special Rapporteur dell’ONU Rashida Manjoo nel suo discorso per il panel della società civile: “Il femmicidio è l’estrema conseguenza delle forme di violenza esistenti contro le donne. Queste morti non sono isolati incidenti che arrivano in maniera inaspettata e immediata, ma sono l’ultimo efferato atto di violenza che pone fine ad una serie di violenze continuative nel tempo.”


L’ONU AI DELEGATI DI TUTTI I GOVERNI DEL MONDO: È ORA DI AGIRE CONTRO IL FEMMINICIDIO

(di Barbara Spinelli)
Al Consiglio dei Diritti Umani è stato presentato il primo Rapporto tematico mondiale sugli omicidi basati sul genere

E’ del 2002 la notizia che la violenza maschile sulle donne costituisce la prima causa di morte al mondo per le donne tra i 16 ed i 44 anni. Da allora, troppo poco è stato fatto dagli Stati a livello nazionale per contrastare gli omicidi di donne basati sul genere, e quella violenza in famiglia che troppo spesso (nel 70%  dei casi) li precede. Le Nazioni Unite tuttavia non sono rimaste insensibili a questa macroviolazione dei diritti umani. Già il Comitato per l’attuazione della Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne aveva chiesto a vari Stati, tra cui al Messico ed all’Italia (unico Paese europeo, nel 2011), di adottare misure specifiche per il contrasto al femminicidio, evidenziando come l’aumento dei casi potesse evidenziare un fallimento delle Autorità nel proteggere le donne dalla violenza, soprattutto domestica. Ma il 25 giugno 2012 è stato un giorno epocale per la lotta alla violenza maschile sulle donne: per la prima volta, ai delegati di tutti i Paesi del Mondo, riuniti a Ginevra, nel Palazzo delle Nazioni Unite, al Consiglio dei Diritti Umani, è stato sottoposto un Rapporto tematico sugli omicidi basati sul genere, elaborato dalla Relatrice Speciale dell’ONU contro la violenza sulle donne, Rashida Manjoo.
Il Rapporto tematico sugli omicidi basati sul genere

Il Rapporto tematico sugli omicidi basati sul genere, elaborato dalla Relatrice Speciale dell’ONU contro la violenza sulle donne, Rashida Manjoo, è frutto di numerose consultazioni. In particolare, è stato preceduto nell’ottobre 2011 da un seminario convocato a New York dalla Relatrice Speciale, che ha coinvolto 25 esperti provenienti da diverse aree geografiche, appartenenti al mondo universitario, alle organizzazioni della società civile, ad agenzie delle Nazioni Unite, tutti con comprovate competenze tecniche e professionali in materia di femminicidio. A quell’incontro, nel quale io sono stata invitata in qualità di esperta per l’area europea, si è fatto il punto della situazione sul riconoscimento dei concetti di femmicidio e femminicidio a livello teorico. Ogni esperto ha esplorato le differenti manifestazioni del femminicidio nelle varie aree geografiche, e la risposta delle Istituzioni, con particolare riguardo alle buone pratiche instaurate per garantire una effettiva protezione delle donne dalla rivittimizzazione. Al termine, è stata analizzata la giurisprudenza rilevante a livello regionale e internazionale. La Relatrice Speciale, nel suo rapporto tematico non ha usato mezzi termini nell’affermare che “a livello mondiale, la diffusione degli omicidi basati sul genere, nelle loro diverse manifestazioni, ha assunto proporzioni allarmanti” e che “culturalmente e socialmente radicati, continuano ad essere accettati, tollerati e giustificati, e l’impunità costituisce la norma”. Il diverso significato dei concetti di femmicidio e femminicidio viene ricostruito meticolosamente, riconoscendo che questi termini sono diventati di uso comune grazie alle lotte del movimento femminista, “come alternativa alla natura neutra del termine omicidio, che trascura la realtà di disuguaglianza, oppressione e violenza sistematica nei confronti delle donne”, e per creare una vera e propria “resistenza” a questa forma di violenza letale. Rashida Manjoo non manca di notare una certa ipocrisia in chi continua a definire gli omicidi basati sul genere “delitti passionali” in Occidente, come atto di un singolo individuo, e “delitti d’onore” a Oriente, quale esito di pratiche religiose o culturali. Questa dicotomia, spiega la Relatrice richiamando l’ottima criminologa Nadera Shaloub Kevorkian, esprime una visione concettuale semplicistica, discriminatoria e spesso stereotipata, che oscura l’intersezionalità dei fattori politici, economici, sociali, culturali, e di genere che riguardano tutte le donne del mondo”. Gli omicidi basati sul genere nel Mondo si manifestano in forme anche diverse tra loro. Qualsiasi sia la forma in cui si manifestino, viene chiarito in via definitiva che “Non si tratta di incidenti isolati che accadono all’improvviso, inaspettati, ma rappresentano piuttosto l’ultimo atto si un continuum di violenza”.  Ed infatti, la forma di femminicidio che accomuna tutte le donne del mondo è proprio l’uccisione a seguito di pregressa violenza subita nell’ambito della relazione d’intimità. Altre forme di femminicidio sono quelle legate alle accuse di stregoneria o di magia, diffuse in alcuni Paesi dell’Africa, dell’Asia e delle isole del Pacifico; gli omicidi di donne commessi in nome “dell’onore”; i ginocidi perpetrati nell’ambito dei conflitti armati; le uccisioni di donne a causa della dote, assai diffusi in alcuni Paesi dell’Asia meridionale; gli omicidi di donne indigene e aborigene; le forme estreme di accanimento sui corpi delle donne in cui sono coinvolte la criminalità organizzata e le organizzazioni paramilitari; le uccisioni a causa dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere (che sono in continuo aumento, tanto che il Consiglio dei Diritti Umani ha adottato una risoluzione rivoluzionaria sulle violazioni dei diritti umani basate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, la n. 17/19); e le altre forme di uccisioni correlate al genere, come la pratica del sati (le vedove indiane bruciate vive sulla pira funeraria del marito)  o l’aborto dei feti e l’uccisione delle bambine in quanto donne. Un aspetto significativo di questo Rapporto tematico è la condanna dei media che spesso, nel riportare delle  uccisioni di donne, “hanno perpetuato stereotipi e pregiudizi”, ma che tuttavia, in mancanza di una raccolta dati ufficiali, riportando informazioni sulla relazione autore/vittima e su eventuali pregresse violenze, spesso “hanno aiutato le associazioni di donne a a distinguere i femminicidi dagli altri omicidi di donne”. La Relatrice Speciale ha individuato, tra le sfide principali per prevenire e contrastare il femminicidio: la difficoltà di una trasformazione sociale profonda in generale, le difficoltà nell’accesso alla giustizia, l’assenza o insufficienza di un discorso basato sui diritti umani nell’approccio agli omicidi di donne; la cecità delle disuguaglianze strutturali e la complessa intersezione tra le relazioni di potere nella sfera pubblica e privata, che rimane la causa più profonda delle discriminazioni sessuali e basate sul genere.
Le raccomandazioni

La Relatrice speciale invita gli Stati a utilizzare categorie adeguate per la classificazione degli omicidi di donne, che tengano conto della dimensione di genere, e di adottare gli indicatori ONU per la raccolta disaggregata dei dati. Sottolinea l’importanza di una corretta informazione sul tema da parte dei media, di un’adeguata valutazione del rischio, della previsione di strumenti di tutela civili e penali, e dell’importanza di poter disporre di servizi sociali e di case rifugio in numero adeguato. Evidenzia come, nei casi di crisi o debolezza delle Istituzioni, l’impunità dovuta alla corruzione e alla rinuncia da parte dello Stato a offrire tutela giurisdizionale renda possibili e favorisca gravissime violazioni dei diritti fondamentali delle donne. Suggerisce  che un Protocollo di azione, rivolto alla magistratura, alle forze dell’ordine e ai politici, potrebbe essere utile a definire linee guida basate su standard internazionali per la prevenzione e le indagini sui femminicidi, e potrebbe rendere più facile far valere la responsabilità internazionale degli Stati per la loro violazione. L’eliminazione della violenza sulle donne è basata sul rispetto degli standards internazionali nella previsione legale di misure di protezione, nell’adozione di politiche  adeguate, e nella promozione di una cultura del rispetto e non discriminatoria. In sostanza,  l’unica soluzione sta in un approccio olistico alle cause strutturali di discriminazione, oppressione e marginalizzazione delle donne, che preveda azioni sul piano politico, operativo, giuridico e amministrativo.
La reazione degli Stati alla presentazione del Rapporto tematico sul femminicidio

La maggior parte delle delegazioni governative presenti ha accolto con ampio favore il Rapporto Tematico, ringraziando la Relatrice Speciale ed impegnandosi a perseguire a livello nazionale ed internazionale gli obbiettivi indicati. Le uniche note critiche sono venute dall’Algeria, che ha affermato che il suo codice penale punisce qualsiasi persona responsabile di violenza nei confronti di un’altra persona, aldilà del genere, e che quindi era necessario che il rapporto non avesse incluso aspetti controversi non riconosciuti dal diritto internazionale, e dall’Egitto che, analogamente, si è espresso in totale disaccordo con il legame individuato nel Rapporto  tra discriminazione nei confronti di donne e bambine e gli omicidi e che ha “rigettato categoricamente”  il tentativo compiuto dalla Relatrice Speciale di introdurre nozioni estranee al quadro internazionale dei diritti umani e delle obbligazioni degli Stati, come le nozioni di orientamento sessuale e identità di genere.
Il ruolo della società civile: la storia siamo noi

La Piattaforma CEDAW è stata presente a Ginevra, ed ha attivamente preso parte ai lavori. Sono state presentate tre dichiarazioni scritte e gli interventi orali si sono alternati sia nell’ambito del dialogo interattivo (Giuristi Democratici e centro antiviolenza di Parma) sia nell’ambito del dibattito generale (Pangea e D.i.re). Inoltre, abbiamo organizzato un evento parallelo per approfondire il dibattito, con un panel di relatori nazionali ed internazionali. La Relatrice Speciale nel Rapporto tematico ha affermato che “la formulazione di istanze basate sul riconoscimento dei propri diritti fondamentali da parte delle donne, resta un’importante strumento strategico e politico per l’empowerment delle donne e per fronteggiare le violazioni dei diritti umani”. E’ così. Ce lo dimostrano i risultati ottenuti nel contrasto al femminicidio dalle donne messicane, ma ce lo dimostra anche la nostra storia. C’è una parte di società in Italia che ha modo di vedere con i suoi occhi quanto fa male la violenza maschile sulle donne: non fa male solo alla donna che viene picchiata o umiliata ogni giorno nell’inferno di casa sua, ma fa male anche all’azienda in cui lavora, per i giorni di malattia che si prende e la perdita di produttività, e fa male al sistema sanitario, e alla democrazia in generale. C’è una parte di società, uomini e donne, che ha voglia di raccontare l’entusiasmo di lavorare in rete per contrastare la violenza nelle relazioni di intimità, e le frustrazioni legate alla mancanza di fondi per farlo: dai soldi che mancano per la benzina delle volanti, alle case rifugio che chiudono per il mancato rinnovo delle convenzioni con gli enti locali. C’è una parte di società che ha documentato tutto questo, che ha fornito il proprio contributo all’elaborazione del “Rapporto ombra” sull’implementazione della CEDAW in Italia. Tante esperte ed esperti, tanti operatori e operatrici, tanti collettivi femministi e associazioni, tante donne sopravvissute alla violenza o alla discriminazione, hanno raccontato il loro pezzo di storia, il loro pezzo di resistenza quotidiana, fornito i dati raccolti, evidenziato le conseguenze sulle loro vite, o sulle vite delle persone che assistevano, di leggi sbagliate, ingiuste, e politiche incuranti degli effetti devastanti prodotti sulle vite delle donne. Hanno  riferito delle battaglie portate avanti per cercare un dialogo con le Istituzioni a tutela di quei diritti, e di come non sempre fossero riusciti ad ottenerlo. Tutto questo materiale, raccolto e rielaborato dal gruppo di lavoro della Piattaforma CEDAW, è stato da me tradotto nel linguaggio dei diritti: ovvero, nel “Rapporto Ombra” abbiamo identificato  le violazioni dei diritti umani delle donne in Italia, diritto per diritto, dal diritto all’istruzione, al diritto alla salute, al lavoro, e così via, fino al diritto a una vita libera dalla violenza. E, identificate tutte le violazioni, le abbiamo sottoposte all’ONU, al Comitato per l’implementazione della CEDAW. Il Comitato CEDAW, ricevute anche le corpose documentazioni ufficiali dal Governo italiano, e a seguito di un dialogo costruttivo da tra esperti del Comitato CEDAW ed esperti dei vari Ministeri,  ha ritenuto che la maggior parte delle violazioni da noi identificate fossero effettivamente tali, ed ha indirizzato all’Italia una serie di raccomandazioni molto severe, identificando come problemi principali la lotta agli stereotipi e alla violenza sulle donne. Su questi temi, il Governo italiano è chiamato a riferire nel 2013. Ma come Piattaforma CEDAW, ed in particolare Giuristi Democratici e la rete nazionale dei centri antiviolenza D.i.re, nel periodo in cui preparavamo il Rapporto Ombra, abbiamo anche invitato in Italia la Relatrice Speciale dell’ONU contro la violenza sulle donne, per proporre tre giorni di incontri e seminari sugli strumenti internazionali di tutela dei diritti delle donne. In quei giorni la Relatrice Speciale ebbe modo di conoscere dalla società civile le cause e le conseguenze della violenza sulle donne in Italia. Successivamente, decise di chiedere al Governo italiano la possibilità di venire in Italia in visita ufficiale, possibilità che fu prontamente accordata. La Missione, avvenuta dal 15 al 26 gennaio 2012, ha permesso alla Relatrice di poter ottenere informazioni dirette dalle Istituzioni, attraverso incontri con esperti dei vari Ministeri, esponenti della Magistratura e altri organismi, che l’hanno ricevuta ufficialmente ed hanno dialogato con Lei, rispondendo alle sue domande e offrendole informazioni rilevanti. Il Governo le ha anche concesso la possibilità di visitare carceri e C.I.E., e di parlare con donne detenute e trattenute, in privato. Inoltre, ci sono stati gli incontri  con la società civile: dalle operatrici dei centri antiviolenza, alle mediatrici culturali, a medici, avvocate, psicologhe, accademiche, associazioni filogovernative e organizzazioni non governative, collettivi, e poi vittime di violenza o di discriminazioni. Si è creata una rete di contatti e relazioni per documentare attraverso resoconti documentati, dati, ricerche e storie di vita vissuta una realtà che le Istituzioni si ostinano a non voler vedere, quella del percorso a ostacoli che devono affrontare le donne che vogliono uscire da una situazione di violenza e gli operatori che le assistono. La Relatrice Speciale dell’ONU contro la violenza sulle donne,  In contemporanea al Rapporto tematico sul femminicidio, davanti al Consiglio dei Diritti umani dell’ONU a presentato anche il Rapporto sulla Missione in Italia, che contiene delle Raccomandazioni specifiche rivolte alle Istituzioni italiane su quali azioni è necessario porre in essere per il futuro per il contrasto alla violenza maschile sulle donne e la prevenzione del femminicidio. E’ evidente che il protagonismo della Piattaforma CEDAW e della rete nazionale dei centri antiviolenza (DIRE), nonché di tutte quelle realtà femminili e femministe che vi orbitano intorno e che hanno apportato dati fondamentali all’elaborazione delle istanze promosse davanti all’ONU (si pensi al prezioso lavoro di Femminismo ASud sulla PAS o dell’ASGI sulla condizione delle donne migranti e le problematiche relative alle azioni antidiscriminatorie, ma l’elenco sarebbe davvero troppo lungo) ha reso possibile la definizione da parte delle Nazioni Unite di indicazioni ben precise circa le politiche e le modifiche legislative che devono essere poste in essere per garantire, in concreto, miglioramenti per le donne italiane nell’accesso e nel godimento dei loro diritti fondamentali. Più che mere indicazioni, si tratta di vere e proprie obbligazioni internazionali che il Governo italiano è chiamato ad adempiere, e della cui violazione può essere chiamato a rispondere. Spetta a tutte/i noi, ora, fare si che queste raccomandazioni vengano rispettate e che venga data attuazione alle misure richieste. Credo che il protagonismo di tutte/i coloro, singole e associazioni, che hanno partecipato sia al percorso che ha portato alla presentazione del Rapporto Ombra CEDAW  sia alle consultazioni con la Relatrice Speciale nel corso della sua visita ufficiale, vada riconosciuto e ringraziato, unitamente alla sensibilità di quei media che hanno dato visibilità alle raccomandazioni, output di questo percorso. E’ stato solo grazie a questa rete informale che questi risultati sono stati possibili, ed è un meraviglioso esempio di partecipazione politica  e di protagonismo civile per la trasformazione sociale. “Be the change you wish to see in the world”, diceva Ghandi. Il merito mio e della Piattaforma CEDAW è stato solo quello di avere fatto da regia e da cassa di risonanza delle rivendicazioni provenienti dalla società civile, e di averle portate all’attenzione delle Nazioni Unite nella forma e con le modalità adeguate. Ora si tratta di andare avanti, in un processo che da un lato deve tendere alla responsabilizzazione istituzionale su queste tematiche, e dall’altro al progressivo superamento dei personalismi e delle strategie di etichettamento che fino ad oggi hanno ostacolato l’efficacia dell’azione dei gruppi femminili, andando invece verso l’identificazione ed il perseguimento di obbiettivi comuni che vedano uniti tutti e tutte per la rivendicazione di misure adeguate per la prevenzione e protezione delle bambine, donne, lesbiche, trans, queer ed intersessuali dalla violenza basata sul genere e sull’orientamento sessuale.

mercoledì 15 agosto 2012

Un corpo di donna va pur sempre bene – Note attorno all’immaginario della crisi


Si dice che l’estate sia il tempo delle letture leggere e a questo diktat sembrano piegarsi un po’ tutti producendo un peggioramento generale del già disastroso panorama giornalistico e “gossipparo” all’italiana. A questo fenomeno, che abusa della leggerezza trasformandola in stupidità, si accosta un’impennata di sessismo su cui vale la pena riflettere. L’incipitmateriale per queste note estive lo offre la copertina del numero corrente di L’espresso: una giovane donna bruna, immersa nell’acqua marina fino alla coscia, orientata verso l’orizzonte ammicca al lettore-spettatore mediante una torsione del busto di centoottanta gradi circa. La sequenza corporea, dunque, mostra: sedere, seno destro di profilo, volto incorniciato dai capelli lunghi e scuri. Sul gluteo destro, grazie al costume leggermente scostato, si scorge – come tatuata – la bandiera greca. Ai piedi dell’immagine, in grande, la scritta “Un tuffo nella crisi” seguita da una breve didascalia esplicativa che informa il “lettore” sul contenuto del giornale.





Perché un corpo di donna anche per parlare di crisi? Per rispondere alla domanda bisogna togliersi dalla testa che il problema sia irrilevante, ovvero che l’immagine sia letteralmente insignificante. Per provare a comprendere la portata semantica e politica della figura, inoltre, è necessario sgomberare il campo anche dalle obiezioni di taglio meramente moralistico che tendono a rigettare l’immagine in quanto semplicemente inopportuna e offensiva. In ogni caso, non è certo la prima volta che sul corpo di una donna transita un messaggio politico più o meno esplicito. E se, una galleria di metafore femminili potrebbe narrare con efficacia la storia italiana e non solo, anche la crisi sembra richiedere un corpo-metafora adeguato, eventualmente cangiante e camaleontico. La sua versione estiva assume così le sembianze della “bellezza mediterranea” al mare, richiamando la tradizionale sovrapposizione tra il corpo delle donne e la terra.
La strategia comunicativa non è nuova. Spot vacanzieri di vario genere vi fanno ricorso da tempo: crociere, escursioni, villaggi vacanze, etc… sono spesso accostati al volto e al corpo di una donna dai tratti meridionali/mediterranei con l’invito a scoprire i segreti e misteri della terra messa in vendita o meglio in affitto, data la temporaneità delle imprese coloniali estive correnti. Coloniale, infatti, è l’immaginario mobilitato e, se la donna è il segno con cui si offre la terra, il messaggio ammicca alla possibilità che il vettore muti di segno, che la terra – una volta raggiunta – offra il corpo di una donna in carne e ossa.
Il marketing – si sa – è cinico e spietato, c’è poco da stupirsi. Ma cosa significa se tutto questo bagaglio simbolico è chiamato in causa per parlare della crisi economica e non per vendere una crociera? Naturalmente tra il linguaggio politico e quello del consumo non esiste un argine rigido e le contaminazioni non rappresentano di per sé una novità o un problema. Ma, ammessa la considerazione generale, la domanda non può restare inevasa poiché ogni volta che la politica forgia una metafora femminile definisce i suoi tratti paradigmatici. Un breve esercizio ermeneutico, dunque, può fornire qualche strumento di difesa contro le retoriche mainstream sulla crisi e, eventualmente, contribuire ad orientare contro-narrazioni a vantaggio delle mobilitazioni a venire.
Si torni con la mente all’immagine della donna-crisi proposta da L’espresso e descritta per sommi capi più sopraIl primo messaggio, banale, è che la diagnosi della crisi in versione da spiaggia è donna. L’articolo serio avrebbe richiesto come minimo una foto di Monti in giacca, cravatta e carte alla mano, mentre per quello idiota va benissimo una bella donna in costume. Una strizzata d’occhio al pubblico da ombrellone, così rassicurato che la vacanza non sarà ammorbata più di tanto dalla politica. Il secondo messaggio, invece, è una sorta di esorcismo: eccola lì la crisi, figura esotica e misteriosa, persino pericolosa come si confà alla bellezza femminile, ma comunque distante perché noi non faremo la fine della Grecia. Da questo punto di vista, nell’immagine sembra risuonare una citazione – certamente involontaria come accade con gli stereotipi – della figura di Ulisse e le Sirene: mito della virtù virile che resiste a una tentazione distruttrice e femminea. Gli spettatori-lettori, messi al sicuro dall’austerity, possono dunque guardare con sereno distacco i dissoluti paesi della bella vita andare alla deriva. Ne godono certo i piaceri – come l’astuto Ulisse – ma solo per tornare presto alla vita di sempre. Che si possa vivere in altro modo, è un’ipotesi nemmeno da contemplare. È interessante osservare come nella dinamica dell’immagine, grazie all’esotismo della figura femminile, il Mediterraneo della crisi risulti alieno e distante, uno spazio politicamente determinato dalla separazione dall’Europa del centro-nord. Grecia e Spagna diventano, così, paesi di un “nuovo sud” a cui l’Italia cerca di non appartenere consegnando all’evidenza la politicità di ogni configurazione geografica.
Figura del disimpegno e dell’esorcismo, quel corpo di donna – con tutta la violenza che ne consegue – è anche metafora di facile accessibilità. Un mare, una donna, e l’invito a tuffarcisi dentro. Oltre alla generica allusione alla disponibilità del corpo femminile in quanto tale, si scorge, più specificamente, un’allusione alla possibilità di dominare la situazione politico-economica da parte della classe dirigente al potere. La crisi come vizio di popoli viziosi (popoli-donna) anziché come prodotto del capitalismo, infatti, sarà risolta grazie alla perizia dei vari tecnici di governo. Banalizzazione, esorcismo e, ora, una promessa a cui, tuttavia, si affianca una minaccia. Una seconda allusione particolarmente aggressiva, infatti, pervade l’immagine e rimanda alla disponibilità dei corpi in generale in tempo di crisi. Non solo il divenire disponibile delle donne declassate dei paesi impoveriti come potenziale forza lavoro principalmente sessuale e domestica, ma una più generale sfruttabilità della popolazione tout court.
Infine – anche se i simboli sono forse sempre più ricchi di quanto si possa esplicitare – è utile sottolineare l’utilizzo della figura femminile per rimuovere la presenza attiva dei soggetti reali coinvolti dalla crisi. Un corpo senz’anima, verrebbe da dire, a patto di togliere all’anima ogni connotato religioso, mistico o trascendente. Un corpo che non soffre, non gioisce, non desidera e non lotta. Un corpo impolitico rappresentato attraverso il corpo generico di una donna. La figura ritratta, infatti, incarna il corpo della Grecia (la bandiera stampata sul gluteo lo esplicita e la tipica equazione donna-nazione rafforza la suggestione) e, al contempo, il corpo generico di una desoggettivazione strumentale e goffamente ideologica. A quest’ultima fanno da contraltare immaginari e azioni di donne e uomini reali e comuni che la retorica patinata non può che tacere. Gli stereotipi e la loro violenza, dunque, non sono separabili da un contesto di critica e di lotta ampio e generale dove il corpo continua a porsi come il nodo in cui s’intrecciano istanze, bisogni, desideri e differenze. L’esercizio costante di sottrazione del corpo ai dispositivi di sfruttamento discorsivo e simbolico appare, dunque, come una pratica di lotta sempre indispensabile.

[articolo di Simona De Simoni, tratto da UniNomade]

lunedì 13 agosto 2012

Liliana Maresca, una preziosa scoperta




Nata in Argentina, sconosciuta in Italia, arriva ora con una mostra in una nuova galleria romana. Ed è una vera sorpresa. Fotografa e performer, Liliana Maresca ci rivela il mondo vivo dell'America Latina, tra intellettuali e un capitolo importante della Body Art degli anni Ottanta in questo Continente. Con un'intensità che evoca quella di altre artiste femministe. Dove tutto si gioca nel e col corpo [di Paola Ugolini]

Il corpo femminile, la sua rappresentazione, la sua complessa e avvolgente volumetria fatta di curve concave e convesse, morbido e accogliente o intellettualmente androgino, come superficie artistica indagata, rappresentata, glorificata e talvolta simbolicamente violata da tutte quelle rappresentanti di un'arte femminile e femminista per cui il corpo è stato un vessillo da issare impudicamente sulle barricate della lotta politica e della parità fra i sessi. [...] In questa storia dell'arte al femminile mancava però un tassello: Liliana Maresca, nata a Buenos Aires nel 1951, sconosciuta in Italia e presentata per la prima volta in Europa nel giovane spazio romano della galleria Spazio Nuovo a cura di Ludovico Pratesi.




Nella Buenos Aires dei primi anni Ottanta emerge la figura anticonformista di quest'audace sperimentatrice artistica, animatrice della vita culturale della città, poliedrica, bella, giovane, intelligente, disinibita, sensuale e curiosa. Un mix esplosivo e irresistibile in un Paese annichilito da sette terribili anni di dittatura militare, legge marziale e violenze che hanno lasciato in eredità ai sopravvissuti una scia di sangue a tutt'oggi indelebile. Lei, la sua bambina e la sua casa-atelier nell'antico quartiere di San Telmo diventano il fulcro di una piccola comunità di artisti, registi, fotografi e intellettuali finalmente liberi di potersi aggregare ed esprimere senza paura. La sua attività complessa comprende dipinti, oggetti, scenografie, sculture, installazioni, performance e fotografia, a Roma un'interessante serie di scatti in bianco e nero ci riporta ad un momento, i primi anni Ottanta, di grande ottimismo, e il corpo nudo dell'artista alla libertà di un momento irripetibile: gli inizi di una nuova fase storica ricca di grande vitalità e creatività dopo il terrore della dittatura.




Liliana Maresca è fotografata da Marcos Lòpez con il corpo che fa da supporto e da quinta teatrale a una serie di sculture antropomorfe di legno da lei realizzate che diventano così una sorta di prolungamento inorganico e oggettuale del suo corpo di carne. C'è una ricerca di oggettivazione del sé che certamente rientra nella poetica specifica dell'arte femminista, un movimento importantissimo dal punto di vista intellettuale e creativo che, dopo ben quarant'anni, non è ancora stato del tutto sdoganato dalle secche ideologiche dalla critica ufficiale. Il femminismo in arte portò avanti una costruttiva lotta alla funzione sublimatoria dell'arte, sottolineandone vitalisticamente la de-sublimazione, e uno dei mezzi più usati per rivoluzionare un sistema estetico-modernista-maschilista fu certamente l'utilizzo della fotografia a discapito di tecniche più tradizionali come la pittura e la scultura. La fotografia e la foto-performance furono preferite dalle artiste donne certamente, non solo in quanto mezzi più nuovi e meno utilizzati dai loro colleghi maschi ma, soprattutto, per la l'estrema versatilità con cui poter esprimere in modo originale il proprio status rivoluzionario di artista donna, ma anche di madre, compagna, oggetto erotico, madonna e puttana.




[tratto da Exibart]

domenica 12 agosto 2012

La chirurgia estetica: un modo di materializzare i corpi

 Un'analisi sulla standardizzazione dei corpi nella società messicana è una chiara espressione dei paradossi della tarda modernità.


di  Elsa Muñiz García, antropologa e storica.


La società contemporanea messicana caratterizzata da una crescente domanda di corpi perfetti, belli e sani, ha adottato e prodotto una gamma di modelli di bellezza per uomini e donne, che si traduce nel disconoscimento ed esclusione della diversità sessuale, che promuovono la discriminazione razziale e dei/delle disabili e anche di coloro che non non soddisfano le caratteristiche di bellezza che vengono attribuiti alla pelle bianca, capelli biondi, ai tratti "Caucasici", l'altezza e  l'estrema magrezza.

Gli standard corporali imposti ad una società eterogenea, come quella messicana,è  l'espressione più chiara di uno dei più grandi paradossi della tarda modernità,  che  mentre promuove un riconoscimento della differenza, trasmette gli elementi  discriminatori e di esclusione divenuti quotidiani. Il raggiungimento di tali standard di bellezza e la  trasformazione  dei loro corpi in "corpi perfetti" è diventato uno degli obiettivi fondamentali della esistenza dei soggetti.  La chirurgia estetica è diventata quindi,una pratica comune in tutti i settori sociali, provocando effetti di vario tipo, dei quali i più  significativi relativi alla auto-percezione delle donne e degli uomini, come i cambiamenti corporali,la modifica delle caratteristiche del viso (naso, guance, occhi, labbra, mento), le modifiche alla massa corporea (liposuzione, protesi), fino al cambio di sesso hanno implicazioni nella soggettività e 'identità. E 'stato riconosciuto, per esempio,che le cosiddette etnochirurgie occupano il primo posto per lo sbiancamento della pelle,per l'ingrandimento degli occhi o per la modifica del "naso meticcio". E''anche importante il dibattito suscitato in gran parte dal femminismo, sull'agenzia delle donne o la loro risposta alla imposizione di modelli attraverso la manipolazione del prorio corpo.


La bellezza non può essere compresa senza tenere  in conto il genere e il potere (Bordo, 1990). Concentrarci sulle pratiche di bellezza, come dieta, esercizio fisico e, in particolare, la  chirurgia estetica, comprese le dichiarazioni e le rappresentazioni,ci permette di esplorare i modi per stabilire il rapporto tra genere, potere e corporeità nella cultura occidentale. Sulla base del concetto di "materializzazione dei corpi", sviluppato da Judith Butler, i discorsi e le pratiche corporee sono atti performativi che materializzano i corpi, decifrabili solamente come corpi femminili o maschili.

In una discussione con i costruttivisti, Judith Butler ha sottolineato l'importanza di non concepire il corpo come una superficie di iscrizione o come un'entità " prediscorsiva". Nella sua nozione scompare l'idea del corpo come biologico,e si impone la cultura per la  quale il corpo è il risultato della capacità produttiva. Il corpo femminile in questo senso,esprime con precisione questi effetti di pratiche e discorsi della femminilità, in particolare da quel dispositivo corporale che  è la chirurgia estetica. I vari modi con cui le donne dovrebbero ornare o alterare i loro corpi lavorano per eliminare le differenze tra esse, producendo  come effetto contraddittorio, l'omogernizzazione. La soppressione dei significati specifici, ruba alle pratiche di bellezza, il loro significato politico e le rende ideali per la normalizzazione della femminilità in tutte le sue forme riducendo così la forza della nozione di corpo come metafora, così caratteristica della nostra epoca.

Le pratiche dirette al mantenimento e miglioramento del corpo vengono percepite come il mezzo per realizzare il progetto personale, così come il modo di sconfiggere la morte e il decadimento individuale. Le pratiche di bellezza, in particolare, la chirurgia estetica, hanno rafforzato l'idea della strumentalità del corpo; la nozione del corpo-macchina modificabile e riparabile si alimenta della convinzione che queste pratiche dimostrano la riconquista del corpo da parte delle donne. Da ciò possiamo comprendere una delle principali discussioni generate dalla diffusione della chirurgia estecica, che mette al centro la"rappresentanza"delle donne tradotta nella domanda femminista del diritto " a decidere sul proprio corpo"
L'idea che il corpo possa essere controllato dal potere, cioè il potere della mente sulla materia rafforza i rapporti gerarchici tra i sessi. Le donne pensano che controllare o contenere i loro corpi mediante  pratiche estetiche, possano fuggire dalla percezione di insufficienza, dall'idea di non essere abbastanza buone o idoneamente belle. Così, nel bel mezzo di un paradosso, le donne  si sentono potenziate o liberate dalle regole e pratiche di bellezza, che le vincolano e schiavizzano, fino ad arrivare,  in molti casi,ad un autentico sacrificio nel quale i loro corpi sono l'offerta.

Bordo (1993) sottolinea l'importanza di considerare la storicità delle pratiche di bellezza per collegare l'individualità ad un contesto più ampio di potere e gerarchie di genere, ma analizzando il complesso e contraddittorio lavoro  dei discorsi sul corpo, il controllo e la femminilità.
Bordo, mostra perché le donne sono particolarmente sensibili alle lusinghe del sistema bellezza, sollevando inoltre, la questione che le pratiche di bellezza non sono semplicemente un artefatto del consumo capitalista, della femminilizzazione della cultura o delle contraddizioni della modernità,  ma sono fondamentali per la riproduzione delle relazioni di dominio e subordinazione, per perpetuare le limitazioni e gli effetti disciplinari della femminilità.
Oggi,la chirurgia estetica è diventata un fenomeno di massa,  per cui la consideriamo come una pratica di democratizzazione. Tuttavia,dobbiamo porre attenzione alla sua natura biopolitica, in quanto diretta al controllo del corpo collettivo della società, non solo creando modelli estetici per le donne,ma generando nuove e non tanto nascoste forme di discriminazione (razziali, di classe, di età).


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(traduzione di Lia Di Peri)






                                                                   


                                                                    

sabato 11 agosto 2012

Quante bestie ha zio Tobia?


Sono giorni che su facebook gira una foto di Federica Pellegrini con una battuta per didascalia.
Noi, come altri gruppi, abbiamo denunciato quello che la foto in realtà rappresenta, non una battuta per far ridere ma un commento (neanche troppo sottile) sessista.
Come si può vedere dallo screenshot seguente il commento banale di un uomo non poteva mancare.


Personalmente non ho simpatia per Federica Pellegrini così come non ho simpatia per Daniela Santanchè.
Ciò non toglie che l'una e l'altra meritano di essere messe in discussione per i meriti o demeriti che hanno e che sicuramente non dipendono dalle posizioni sessuali scelte o dalla frequenza con la quale decidono di fare sesso.
E questo comportamento non è femminismo ma pura e semplice civiltà.

Le donne che fanno parte di questo collettivo hanno più volte attaccato le immagini sessiste indipendentemente dal fatto che venissero da destra o da sinistra perchè non hanno mai nascosto la testa sotto la sabbia e hanno riconosciuto che i “compagni” non sono migliori dei “camerata” quando ci si rivolge ad una donna.
Chi ha seguito le olimpiadi saprà che il compagno di Pellegrini, Filippo Magnini, non ha conseguito eccellenti risultati alle olimpiadi eppure non ho visto girare foto con didascalie a sfondo sessuale.
Mi chiedo: Filippo Magnini a rana, delfino e pecora non dà il meglio di sé?
Oppure Filippo Magnini a rana, delfino e pecora non fa ridere?
Qualcuno ha pensato bene di fare battute sulla sua disciplina (stile libero nelle distanze brevi) e la brevità dei suoi rapporti sessuali?

Ovviamente no.
Non ci sarebbe stato nulla da ridere, così come non c'è nulla da ridere su Pellegrini o Santanchè o Carfagna o le veline (e potrei continuare ad oltranza).
E se qualche mente brillante avesse concepito una battuta così divertente Le Arrabbiate l'avrebbe denunciata come sessista perché il sessismo non è solo contro le donne ma anche contro gli uomini e spesso perpetrato dagli stessi uomini.

Non cogliamo la provocazione del commento sul '68 (anno in cui non ero neanche nei pensieri di mia madre, ancora bambina) né sul cercarsi le battute (alcune donne hanno già risposto in modo intelligente sottolineando l'ignoranza di chi crede che una minigonna attiri lo stupro o una vita sessuale serena attiri sessismo) ma approfittiamo per ampliare il discorso e farci-farvi delle domande.
Torniamo sulla coppia Pellegrini-Magnini.
Scarse prestazioni sportive per entrambi, sulla prima si fa del sessismo (per gli intolleranti alle parole del femminismo vagamente sessantottino la chiamiamo ironia sessuale) sul secondo no.
Perché? Perché l'umiliazione della donna in campo sessuale diverte e sollazza il patriarcato?

Eppure la posizione della pecora è la più agognata, ho visto uomini supplicare come bambini capricciosi davanti ad una gelateria per poterne avere un assaggio.
Francamente apprezzo la pecora, apprezzerei anche la rana e il delfino se sapessi farli, apprezzo qualunque cosa possa rendere piacevole lo scambio di effusioni con l'uomo che scelgo di frequentare, che dia piacere a me e che dia piacere a lui.
Perché trasformarla in offesa, in cosa disdicevole?

E badate bene che il motivo non è molto distante dalla minigonna e lo stupro.
La posizione della pecora o la minigonna diventano armi e offese perché il sesso non è cosa da donne.
Una donna che vive liberamente la propria sessualità non solo per il compagno ma anche per se stessa, che non ha pudore nell'esplorare e nell'esplorarsi fa paura.
Terrorizza perché il sesso è un campo maschile, perché finché il sesso rimane una cosa da uomini gli uomini pigri ed egoisti non devono sforzarsi più di tanto in creatività e fantasia dal momento che loro non hanno bisogno di un sesso ragionato, basta un buco e un po' di sù e giù ma soprattutto perché una donna che sconfina il territorio del sesso diventa Soggetto e forse potrebbe voler guidare anziché lasciarsi condurre.

Qual è l'unico modo per tenere fuori una donna da un territorio?
Rivoltare la paura, come lo specchio riflesso quando si litigava da bambini.
Se quello che mi spaventa lo rifletto sull'Altro ottengo una traslazione della paura.
E in questo modo la pecora e la puttana diventano svilenti, offese, cose impure di cui vergognarsi e da cui ri-fuggire.

Capito il meccanismo ci vuol poco a ri-abilitare le parole abusate.

Quindi, cara Pellegrini, a pecora sei brava, ma è a rana e delfino che dai il meglio.

martedì 7 agosto 2012

Giornaliste messicane in pericolo

Il Messico è tra i primi paesi al mondo in cui la libertà di stampa è in grave pericolo. Le giornaliste, in particolare, sono doppiamente vulnerabili, per la loro professione e per il fatto di essere donne: l'arma della violenza sessuale si aggiunge alle altre forme di silenziare chi si dedica a investigare e a informare.

sabato 4 agosto 2012

Pussy Riot, libere tutte!

Il 21 febbraio 2012 sono state arrestate Maria Alekhina, Ekaterina Samusevich e Nadezhda Tolokonnikova, tre membri delle Pussy Riot, una punk band di femministe di Mosca nota per i concerti improvvisati sui tetti delle case, degli autobus urbani, nelle piazze, ecc. Il loro reato? Aver girato in una chiesa ortodossa un videoclip di un loro pezzo che denunciava i rapporti tra il premier Putin e l'istituzione della religione di stato della Federazione Russa. L'accusa è blasfemia e sacrilegio, ma è lampante che si tratta di una censura alla libertà d'opinione, un bieco tentativo di silenziare ogni opposizione e critica allo Stato e alla Chiesa. Da subito si è scatenata una campagna internazionale in solidarietà con le musiciste-attiviste moscovite, che ha visto scendere in campo sia gruppi femministi che Ong della taglia di Amnesty International, nonché vari personaggi del mondo dell'arte e dello spettacolo, come Sting, Patty Smith, Peter Gabriel, i Franz Ferdinand e i Red Hot Chili Peppers. Il 30 luglio 2012 è iniziato il processo in tribunale: le giovani donne rischiano fino a sette anni di carcere! Questo contributo delle Arrabbiate cerca di sensibilizzare l'opinione pubblica italiana sul loro caso.


Massima solidarietà alle Pussy Riot, libere tutte!