Facebook è solo un social-network, si sa, e
il peso delle opinioni espresse attraverso il canale telematico viene
comunemente considerato come relativo.
Ma si può davvero parlare di relatività
quando ci si riferisce ad opinioni espresse in merito del femminicidio? Si può
davvero dare poco peso alle parole di persone che definiscono il femminicidio
come un’operazione mediatica?
L’episodio in questione risale a qualche
tempo fa. Ma non è l’unico.
Chi frequenta l’ambiente dei social-network,
nel tentativo di diffondere una cultura di genere, lo sa bene. Si legge di
tutto. E i maschilisti che sbandierano il proprio orgoglio virile e misogino
sono solo una parte di quello che fa rabbrividire. Capita, per esempio, che ci
si imbrigli in conversazioni ai limiti del paranormale con donne che si
definiscono femministe “intelligenti” o "serie" differenziandosi dalle “nazifemministe”
[nazifemminismo: ossimoro, categoria concettuale utilizzata per calunniare i
movimenti femministi, poiché nessun movimento femminista – nel corso della
storia – è mai stato nazista o a favore dell’oppressione degli esseri umani].
Riprendo questo episodio per rispondere una
volta per tutte alle persone – ahimè, numerose – che si ostinano a negare
l’esistenza di un fenomeno che da sempre esiste, che da sempre rappresenta una
piaga sociale trasversale alle culture, ai luoghi, ai contesti e alle epoche,
un fenomeno che ancora oggi continua ad essere misconosciuto. E, Le Arrabbiate
lo dicono sempre, “ciò che non si nomina non esiste”. Parlare di femminicidio
significa dare legittimità ad una realtà che esiste. Ostinarsi a parlare di
violenza, come se la variabile “sesso - genere femminile” non abbia alcuna
rilevanza, significa rendersi complici di una cultura e di una impostazione
societaria che chiude un occhio (se non tutti e due) di fronte alle sempre più
numerose morti e violenze ai danni delle donne. A chi mai verrebbe in mente di
dire che non esiste la pedofilia, che questo concetto è un prodotto mediatico perché
la violenza riguarda tutti? A nessuno, temo. Le eccezioni si sollevano solo
quando si tratta di donne (e, se vogliamo dirla tutta, quando si tratta di
tutte le categorie che minano l’eteronormatività e il patriarcato: donne,
persone omosessuali e bisessuali, persone transgender, intersessuali,
crossdresser, queer).
Rispondiamo a chi misconosce e
rinnega l’esistenza del femminicidio, diffondendo un documento redatto dall’avvocata
Barbara Spinelli, che riporta quanto emerso nel corso della 20° Sessione del Consiglio dei Diritti Umani, presso la sede delle Nazioni Unite di Ginevra, in data 25
giugno 2012: Rashida Manjoo - Special Rapporteur delle Nazioni Unite per il
contrasto della violenza sulle donne – ha presentato, per la prima volta, il Rapporto Tematico Annuale sugli Omicidi Basati sul Genere, ed il Rapporto sulla Violenza, sulla scorta
delle sua missione in Italia lo scorso gennaio.
Rispondiamo a chi, chiudendo gli occhi, nega l'esistenza del femminicidio in quanto piaga sociale, con le parole usate dalla Special Rapporteur dell’ONU Rashida Manjoo nel suo discorso per il panel della
società civile: “Il
femmicidio è l’estrema conseguenza delle forme di violenza esistenti contro le
donne. Queste
morti non sono isolati incidenti che arrivano in maniera inaspettata e
immediata, ma sono
l’ultimo efferato atto di violenza che pone fine ad una serie di violenze
continuative nel tempo.”
L’ONU AI DELEGATI DI TUTTI I GOVERNI DEL MONDO: È ORA DI AGIRE CONTRO IL FEMMINICIDIO
(di
Barbara Spinelli)
Al Consiglio dei Diritti Umani è stato presentato il primo
Rapporto tematico mondiale sugli omicidi basati sul genere
E’ del
2002 la notizia che la violenza maschile sulle donne costituisce la prima causa
di morte al mondo per le donne tra i 16 ed i 44 anni. Da allora, troppo
poco è stato fatto dagli Stati a livello nazionale per contrastare gli omicidi
di donne basati sul genere, e quella violenza in famiglia che troppo spesso
(nel 70% dei casi) li precede. Le Nazioni Unite tuttavia non sono
rimaste insensibili a questa macroviolazione dei diritti umani. Già il
Comitato per l’attuazione della Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni
forma di discriminazione nei confronti delle donne aveva chiesto a vari Stati,
tra cui al Messico ed all’Italia (unico Paese europeo, nel 2011), di adottare
misure specifiche per il contrasto al femminicidio, evidenziando come l’aumento
dei casi potesse evidenziare un fallimento delle Autorità nel proteggere le
donne dalla violenza, soprattutto domestica. Ma il 25 giugno 2012 è stato
un giorno epocale per la lotta alla violenza maschile sulle donne: per la prima
volta, ai delegati di tutti i Paesi del Mondo, riuniti a Ginevra, nel Palazzo
delle Nazioni Unite, al Consiglio dei Diritti Umani, è stato sottoposto un
Rapporto tematico sugli omicidi basati sul genere, elaborato dalla Relatrice
Speciale dell’ONU contro la violenza sulle donne, Rashida Manjoo.
Il Rapporto tematico sugli omicidi basati sul genere
Il
Rapporto tematico sugli omicidi basati sul genere, elaborato dalla Relatrice
Speciale dell’ONU contro la violenza sulle donne, Rashida Manjoo, è frutto di
numerose consultazioni. In particolare, è stato preceduto nell’ottobre 2011 da
un seminario convocato a New York dalla Relatrice Speciale, che ha coinvolto 25
esperti provenienti da diverse aree geografiche, appartenenti al mondo
universitario, alle organizzazioni della società civile, ad agenzie delle
Nazioni Unite, tutti con comprovate competenze tecniche e professionali in
materia di femminicidio. A quell’incontro, nel quale io sono stata
invitata in qualità di esperta per l’area europea, si è fatto il punto della
situazione sul riconoscimento dei concetti di femmicidio e femminicidio a
livello teorico. Ogni esperto ha esplorato le differenti manifestazioni del
femminicidio nelle varie aree geografiche, e la risposta delle Istituzioni, con
particolare riguardo alle buone pratiche instaurate per garantire una effettiva
protezione delle donne dalla rivittimizzazione. Al termine, è stata analizzata
la giurisprudenza rilevante a livello regionale e internazionale. La
Relatrice Speciale, nel suo rapporto tematico non ha usato mezzi termini
nell’affermare che “a livello mondiale, la diffusione degli omicidi basati sul
genere, nelle loro diverse manifestazioni, ha assunto proporzioni allarmanti” e
che “culturalmente e socialmente radicati, continuano ad essere accettati,
tollerati e giustificati, e l’impunità costituisce la norma”. Il
diverso significato dei concetti di femmicidio e femminicidio viene ricostruito
meticolosamente, riconoscendo che questi termini sono diventati di uso comune
grazie alle lotte del movimento femminista, “come alternativa alla natura
neutra del termine omicidio, che trascura la realtà di disuguaglianza,
oppressione e violenza sistematica nei confronti delle donne”, e per creare una
vera e propria “resistenza” a questa forma di violenza letale. Rashida
Manjoo non manca di notare una certa ipocrisia in chi continua a definire gli
omicidi basati sul genere “delitti passionali” in Occidente, come atto di un
singolo individuo, e “delitti d’onore” a Oriente, quale esito di pratiche
religiose o culturali. Questa dicotomia, spiega la Relatrice richiamando
l’ottima criminologa Nadera Shaloub Kevorkian, esprime una visione concettuale
semplicistica, discriminatoria e spesso stereotipata, che oscura
l’intersezionalità dei fattori politici, economici, sociali, culturali, e di
genere che riguardano tutte le donne del mondo”. Gli omicidi basati sul
genere nel Mondo si manifestano in forme anche diverse tra loro. Qualsiasi
sia la forma in cui si manifestino, viene chiarito in via definitiva che “Non
si tratta di incidenti isolati che accadono all’improvviso, inaspettati, ma
rappresentano piuttosto l’ultimo atto si un continuum di violenza”.
Ed infatti, la forma di femminicidio che accomuna tutte le donne del
mondo è proprio l’uccisione a seguito di pregressa violenza subita nell’ambito
della relazione d’intimità. Altre forme di femminicidio sono quelle legate
alle accuse di stregoneria o di magia, diffuse in alcuni Paesi dell’Africa,
dell’Asia e delle isole del Pacifico; gli omicidi di donne commessi in nome
“dell’onore”; i ginocidi perpetrati nell’ambito dei conflitti armati; le
uccisioni di donne a causa della dote, assai diffusi in alcuni Paesi dell’Asia
meridionale; gli omicidi di donne indigene e aborigene; le forme estreme di
accanimento sui corpi delle donne in cui sono coinvolte la criminalità
organizzata e le organizzazioni paramilitari; le uccisioni a causa
dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere (che sono in continuo
aumento, tanto che il Consiglio dei Diritti Umani ha adottato una risoluzione
rivoluzionaria sulle violazioni dei diritti umani basate sull’orientamento
sessuale e l’identità di genere, la n. 17/19); e le altre forme di uccisioni
correlate al genere, come la pratica del sati (le vedove indiane
bruciate vive sulla pira funeraria del marito) o l’aborto dei feti e
l’uccisione delle bambine in quanto donne. Un aspetto significativo di
questo Rapporto tematico è la condanna dei media che spesso, nel riportare
delle uccisioni di donne, “hanno perpetuato stereotipi e pregiudizi”, ma
che tuttavia, in mancanza di una raccolta dati ufficiali, riportando
informazioni sulla relazione autore/vittima e su eventuali pregresse violenze,
spesso “hanno aiutato le associazioni di donne a a distinguere i femminicidi
dagli altri omicidi di donne”. La Relatrice Speciale ha individuato, tra
le sfide principali per prevenire e contrastare il femminicidio: la difficoltà
di una trasformazione sociale profonda in generale, le difficoltà nell’accesso
alla giustizia, l’assenza o insufficienza di un discorso basato sui diritti
umani nell’approccio agli omicidi di donne; la cecità delle disuguaglianze
strutturali e la complessa intersezione tra le relazioni di potere nella sfera
pubblica e privata, che rimane la causa più profonda delle discriminazioni
sessuali e basate sul genere.
Le raccomandazioni
La
Relatrice speciale invita gli Stati a utilizzare categorie adeguate per la
classificazione degli omicidi di donne, che tengano conto della dimensione di
genere, e di adottare gli indicatori ONU per la raccolta disaggregata dei
dati. Sottolinea l’importanza di una corretta informazione sul tema da
parte dei media, di un’adeguata valutazione del rischio, della previsione di
strumenti di tutela civili e penali, e dell’importanza di poter disporre di
servizi sociali e di case rifugio in numero adeguato. Evidenzia come, nei
casi di crisi o debolezza delle Istituzioni, l’impunità dovuta alla corruzione
e alla rinuncia da parte dello Stato a offrire tutela giurisdizionale renda
possibili e favorisca gravissime violazioni dei diritti fondamentali delle
donne. Suggerisce che un Protocollo di azione, rivolto alla
magistratura, alle forze dell’ordine e ai politici, potrebbe essere utile a
definire linee guida basate su standard internazionali per la prevenzione e le
indagini sui femminicidi, e potrebbe rendere più facile far valere la
responsabilità internazionale degli Stati per la loro
violazione. L’eliminazione della violenza sulle donne è basata sul
rispetto degli standards internazionali nella previsione legale di misure di
protezione, nell’adozione di politiche adeguate, e nella promozione di
una cultura del rispetto e non discriminatoria. In sostanza, l’unica
soluzione sta in un approccio olistico alle cause strutturali di
discriminazione, oppressione e marginalizzazione delle donne, che preveda
azioni sul piano politico, operativo, giuridico e amministrativo.
La reazione degli Stati alla presentazione del Rapporto tematico
sul femminicidio
La
maggior parte delle delegazioni governative presenti ha accolto con ampio
favore il Rapporto Tematico, ringraziando la Relatrice Speciale ed impegnandosi
a perseguire a livello nazionale ed internazionale gli obbiettivi
indicati. Le uniche note critiche sono venute dall’Algeria, che ha
affermato che il suo codice penale punisce qualsiasi persona responsabile di
violenza nei confronti di un’altra persona, aldilà del genere, e che quindi era
necessario che il rapporto non avesse incluso aspetti controversi non
riconosciuti dal diritto internazionale, e dall’Egitto che, analogamente, si è
espresso in totale disaccordo con il legame individuato nel Rapporto tra
discriminazione nei confronti di donne e bambine e gli omicidi e che ha
“rigettato categoricamente” il tentativo compiuto dalla Relatrice
Speciale di introdurre nozioni estranee al quadro internazionale dei diritti
umani e delle obbligazioni degli Stati, come le nozioni di orientamento
sessuale e identità di genere.
Il ruolo della società civile: la storia siamo noi
La
Piattaforma CEDAW è stata presente a Ginevra, ed ha attivamente preso parte ai
lavori. Sono state presentate tre dichiarazioni scritte e gli interventi
orali si sono alternati sia nell’ambito del dialogo interattivo (Giuristi
Democratici e centro antiviolenza di Parma) sia nell’ambito del dibattito
generale (Pangea e D.i.re). Inoltre,
abbiamo organizzato un evento parallelo per approfondire il dibattito, con un
panel di relatori nazionali ed internazionali. La Relatrice Speciale nel Rapporto tematico ha affermato
che “la formulazione di istanze basate sul riconoscimento dei propri diritti
fondamentali da parte delle donne, resta un’importante strumento strategico e
politico per l’empowerment delle donne e per fronteggiare le violazioni dei
diritti umani”. E’ così. Ce lo dimostrano i risultati ottenuti nel
contrasto al femminicidio dalle donne messicane, ma ce lo dimostra anche la
nostra storia. C’è una parte di società in Italia che ha modo di vedere
con i suoi occhi quanto fa male la violenza maschile sulle donne: non fa male
solo alla donna che viene picchiata o umiliata ogni giorno nell’inferno di casa
sua, ma fa male anche all’azienda in cui lavora, per i giorni di malattia che
si prende e la perdita di produttività, e fa male al sistema sanitario, e alla
democrazia in generale. C’è una parte di società, uomini e donne, che ha voglia
di raccontare l’entusiasmo di lavorare in rete per contrastare la violenza
nelle relazioni di intimità, e le frustrazioni legate alla mancanza di fondi
per farlo: dai soldi che mancano per la benzina delle volanti, alle case
rifugio che chiudono per il mancato rinnovo delle convenzioni con gli enti
locali. C’è una parte di società che ha documentato tutto questo, che ha
fornito il proprio contributo all’elaborazione del “Rapporto ombra”
sull’implementazione della CEDAW in Italia. Tante esperte ed esperti, tanti
operatori e operatrici, tanti collettivi femministi e associazioni, tante donne
sopravvissute alla violenza o alla discriminazione, hanno raccontato il loro
pezzo di storia, il loro pezzo di resistenza quotidiana, fornito i dati
raccolti, evidenziato le conseguenze sulle loro vite, o sulle vite delle
persone che assistevano, di leggi sbagliate, ingiuste, e politiche incuranti
degli effetti devastanti prodotti sulle vite delle donne. Hanno riferito
delle battaglie portate avanti per cercare un dialogo con le Istituzioni a
tutela di quei diritti, e di come non sempre fossero riusciti ad
ottenerlo. Tutto questo materiale, raccolto e rielaborato dal gruppo di
lavoro della Piattaforma CEDAW, è stato da me tradotto nel linguaggio dei
diritti: ovvero, nel “Rapporto Ombra” abbiamo identificato le violazioni
dei diritti umani delle donne in Italia, diritto per diritto, dal diritto
all’istruzione, al diritto alla salute, al lavoro, e così via, fino al diritto
a una vita libera dalla violenza. E, identificate tutte le violazioni, le
abbiamo sottoposte all’ONU, al Comitato per l’implementazione della
CEDAW. Il Comitato CEDAW, ricevute anche le corpose documentazioni
ufficiali dal Governo italiano, e a seguito di un dialogo costruttivo da tra
esperti del Comitato CEDAW ed esperti dei vari Ministeri, ha ritenuto che
la maggior parte delle violazioni da noi identificate fossero effettivamente
tali, ed ha indirizzato all’Italia una serie di raccomandazioni molto severe,
identificando come problemi principali la lotta agli stereotipi e alla violenza
sulle donne. Su questi temi, il Governo italiano è chiamato a riferire nel
2013. Ma come Piattaforma CEDAW, ed in particolare Giuristi Democratici e
la rete nazionale dei centri antiviolenza D.i.re, nel periodo in cui
preparavamo il Rapporto Ombra, abbiamo anche invitato in Italia la Relatrice
Speciale dell’ONU contro la violenza sulle donne, per proporre tre giorni di
incontri e seminari sugli strumenti internazionali di tutela dei diritti delle
donne. In quei giorni la Relatrice Speciale ebbe modo di conoscere dalla società
civile le cause e le conseguenze della violenza sulle donne in Italia.
Successivamente, decise di chiedere al Governo italiano la possibilità di
venire in Italia in visita ufficiale, possibilità che fu prontamente
accordata. La Missione, avvenuta dal 15 al 26 gennaio 2012, ha permesso
alla Relatrice di poter ottenere informazioni dirette dalle Istituzioni,
attraverso incontri con esperti dei vari Ministeri, esponenti della
Magistratura e altri organismi, che l’hanno ricevuta ufficialmente ed hanno dialogato
con Lei, rispondendo alle sue domande e offrendole informazioni rilevanti. Il
Governo le ha anche concesso la possibilità di visitare carceri e C.I.E., e di
parlare con donne detenute e trattenute, in privato. Inoltre, ci sono stati gli
incontri con la società civile: dalle operatrici dei centri antiviolenza,
alle mediatrici culturali, a medici, avvocate, psicologhe, accademiche,
associazioni filogovernative e organizzazioni non governative, collettivi, e
poi vittime di violenza o di discriminazioni. Si è creata una rete di contatti
e relazioni per documentare attraverso resoconti documentati, dati, ricerche e
storie di vita vissuta una realtà che le Istituzioni si ostinano a non voler
vedere, quella del percorso a ostacoli che devono affrontare le donne che
vogliono uscire da una situazione di violenza e gli operatori che le
assistono. La Relatrice Speciale dell’ONU contro la violenza sulle
donne, In contemporanea al Rapporto tematico sul femminicidio, davanti al
Consiglio dei Diritti umani dell’ONU a presentato anche il Rapporto sulla
Missione in Italia, che contiene delle Raccomandazioni specifiche rivolte alle
Istituzioni italiane su quali azioni è necessario porre in essere per il futuro
per il contrasto alla violenza maschile sulle donne e la prevenzione del
femminicidio. E’ evidente che il protagonismo della Piattaforma CEDAW e
della rete nazionale dei centri antiviolenza (DIRE), nonché di tutte quelle
realtà femminili e femministe che vi orbitano intorno e che hanno apportato
dati fondamentali all’elaborazione delle istanze promosse davanti all’ONU (si
pensi al prezioso lavoro di Femminismo ASud sulla PAS o dell’ASGI sulla
condizione delle donne migranti e le problematiche relative alle azioni
antidiscriminatorie, ma l’elenco sarebbe davvero troppo lungo) ha reso
possibile la definizione da parte delle Nazioni Unite di indicazioni ben
precise circa le politiche e le modifiche legislative che devono essere poste
in essere per garantire, in concreto, miglioramenti per le donne italiane
nell’accesso e nel godimento dei loro diritti fondamentali. Più che mere
indicazioni, si tratta di vere e proprie obbligazioni internazionali che il
Governo italiano è chiamato ad adempiere, e della cui violazione può essere
chiamato a rispondere. Spetta a tutte/i noi, ora, fare si che queste
raccomandazioni vengano rispettate e che venga data attuazione alle misure
richieste. Credo che il protagonismo di tutte/i coloro, singole e
associazioni, che hanno partecipato sia al percorso che ha portato alla
presentazione del Rapporto Ombra CEDAW sia alle consultazioni con la
Relatrice Speciale nel corso della sua visita ufficiale, vada riconosciuto e
ringraziato, unitamente alla sensibilità di quei media che hanno dato
visibilità alle raccomandazioni, output di questo percorso. E’
stato solo grazie a questa rete informale che questi risultati sono stati
possibili, ed è un meraviglioso esempio di partecipazione politica e di
protagonismo civile per la trasformazione sociale. “Be the change you wish to
see in the world”, diceva Ghandi. Il merito mio e della Piattaforma CEDAW
è stato solo quello di avere fatto da regia e da cassa di risonanza delle
rivendicazioni provenienti dalla società civile, e di averle portate
all’attenzione delle Nazioni Unite nella forma e con le modalità
adeguate. Ora si tratta di andare avanti, in un processo che da un lato
deve tendere alla responsabilizzazione istituzionale su queste tematiche, e
dall’altro al progressivo superamento dei personalismi e delle strategie di
etichettamento che fino ad oggi hanno ostacolato l’efficacia dell’azione dei
gruppi femminili, andando invece verso l’identificazione ed il perseguimento di
obbiettivi comuni che vedano uniti tutti e tutte per la rivendicazione di
misure adeguate per la prevenzione e protezione delle bambine, donne, lesbiche,
trans, queer ed intersessuali dalla violenza basata sul genere e
sull’orientamento sessuale.
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